ciao alberto, ho letto e riletto più volte quello che hai scritto sulla “non appartenenza” . Ho potuto dedurre che il tuo “malessere” non si limita solo alla non appartenenza a qualche ideologia o credo di natura politica, ma si estende ben oltre questo apparente confine: la mancanza (o quasi) di una coscienza sociale comune e dall’essere considerato “cittadino” solo in base ad attributi di natura economica (una specie di “unità di produzione”). Purtroppo rischia di rimanere un’utopia l’idea di una società di “liberi ed eguali” (che pure illuminò l’intero secolo scorso, mobilitando in forme inedite quelle energie sociali e quelle passioni individuali che cambiarono il corso della storia) considerato che il potere economico-politico ha tramutato la propaganda in pubblicità, ha reinventato le forme dell’immaginario di massa, ha riplasmato i desideri collettivi, portando ad una nuova antropologia consumista fino all’individualismo nevrotico. Il liberismo è stato ed è la narrazione “naturale” della vocazione alla libertà predatoria dell’uomo, e l’umanità è subordinata all’economia e dell’economia subordinata alla finanza. Anche la politica è mercato, mercato elettorale. In alcuni casi è diventata dimensione pubblica del totalitarismo del privato. Una modernità virtuale e veloce, incapace tuttavia di fare i conti con le moderne esigenze. La criminalizzazione dei poveri, nelle forme di uno “Stato penale sovrannazionale” che usa i migranti come regolatore del costo del lavoro globale e come capro espiatorio di qualsivoglia psicosi sociale causata da qualsivoglia crisi. L’espulsione delle giovani generazioni dalla costruzione di futuro, in quanto la precarietà diviene un tema unificante l’intero tempo di vita, dal mercato dei lavori atipici alle devastanti solitudini metropolitane. Si ripropone una nuova “questione sociale”, nella geografia dei lavori frammentati e orfani di tutela, nelle stratificazioni del non lavoro, nello smottamento dei ceti medi verso le sabbie mobili dell’incertezza e dell’impoverimento, nella fatica di dare rappresentazione pubblica e valore politico a ciascuna di queste esperienze di vita dimezzata, di vita appesa, di vita a rischio. C’è uno lento sfibramento della democrazia e delle sue istituzioni e qui in Italia nel violento precipitare in un “vuoto di democrazia” colmato dalla videocrazia, dalla censura di Stato e in un moderno populismo reazionario. Qui c’è il vuoto drammatico della politica. Siamo nel pieno della stagione della crisi della politica, e della crisi verticale della forma-partito. La crisi della politica ha ragioni profonde, di sistema. La globalizzazione neoliberista è stata una vera e propria rivoluzione conservatrice. Essa ha strutturato poteri – economici, finanziari, militari – più estesi degli Stati nazionali, più potenti di governi e movimenti politici. Le decisioni fondamentali non passano per la rappresentanza democratica e il costituzionalismo delle istituzioni pubbliche. I governi danno tutti per scontato che, con la crisi, anche in presenza di una significativa ripresa pluriennale, la disoccupazione sia inesorabilmente destinata ad aumentare. Dovunque, com’è ovvio, il colpo arriva prima sulle donne e sui giovani con contratto di lavoro flessibile, svelando d’un colpo la verità della “flessibilità”: non figlia della tecnica e della libertà, ma dell’assoggettamento del lavoro, fino al limite di un moderno schiavismo . Cresce la percezione comune d’impunità per le classi dirigenti, a fronte di un’aggravarsi delle limitazioni dei diritti fondamentali per i più deboli. Non si combatte la povertà, ma i poveri. Così siamo precipitati in un regime di garantismo per i garantiti e di giustizialismo per i socialmente giustiziati. L’Italia è uno dei paesi al mondo nel quale è cresciuta di più la diseguaglianza. Fondamentale è il ruolo assunto dall’economia in nero, dal lavoro sottopagato dei migranti, dal rapido dilagare del lavoro “flessibile” (cioè precario), che ha ridotto la vita delle nuove generazioni in condizioni di assoluto assoggettamento. Ciò significa che tutto il surplus è finito ai profitti e alle rendite, senza in larga parte trasformarsi in investimenti. Il carattere piramidale e castale della società italiana ha fatto sì che la politica economica sia tutta a carico dei più poveri e del lavoro, o con tagli diretti, o riducendo drasticamente l’offerta di servizi del welfare nazionale, regionale e locale. Il degrado morale del paese nasce con la perdita di dignità e soggettività del lavoro, con la decadenza della formazione pubblica e della ricerca, con l’abbandono delle nostre straordinarie risorse di memoria e di natura, con la perdita di solidarietà e di umanità. Persa la memoria di grandi narrazioni sociali e culturali si è diffuso un individualismo astioso, alimentato da paure contro ogni diversità e contro chi minaccia, con la sua sola esistenza e presenza, il territorio o la proprietà. Sono cresciuti egoismi, solitudini, angosce esistenziali. Il tempo presente si è congelato nell’attimo freddo. Smarrita l’identità del passato, viene preclusa la progettazione del futuro da una precarietà esistenziale che ti schiaccia sul qui e ora. Questi veleni, così come il ritorno potente delle culture mafiose, hanno finito per imprigionare l’Italia e la sua creatività in una dimensione meschina. Oggi queste culture regressive condannano il paese ad una marginalità certamente culturale, ma anche economica e sociale. Non bastano più partiti politici, in crisi profonda. La ripartenza del nostro sistema socio-economico dipende, in qualsiasi modo, dal coinvolgimento e dalla ripresa dell’attività politica a qualsiasi livello della società italiana, da una diffusione di una responsabilità sociale, del senso civico e dal rispetto delle regole, dalla riforma complessiva del diritto del lavoro, dagli investimenti in ricerca e cultura, dal cambiamento ciclico delle classi dirigenti politiche e dalla liberarizzazione di alcuni settori dell’economia. Il compito attuale è di ricostruire una partecipazione democratica e di dare forza e credibilità ad un’ idea di trasformazione, sia nei contenuti, che nelle pratiche. Dott. Antonio Lazzarano